Riprendo dal legnostorto un bell'articolo di Massimo Nava per il corriere
Parla uno dei tre sopravvissuti al commando in Bolivia. L'ex
guerrigliero, condannato a morte, dal 1996 vive a Parigi.La rabbia e la
delusione dell'ex ribelle: «Volevamo esportare la rivoluzione, fummo
abbandonati nella giungla. Il Che faceva ombra a Fidel»
PARIGI — È l'ultimo che ha visto il Che nella giungla della Bolivia.
È l'ultimo testimone di un'esecuzione ancora oggi oscura. Dariel
Alarcón Ramírez, detto «Benigno», ex guerrigliero della rivoluzione
cubana, vive dal 1996 a Parigi, inseguito da una condanna a morte e
dall'accusa di aver tradito il regime per il quale ha combattuto con
onore. Che Guevara fu il capo seguito fino alla fine, un fratello che
gli insegnò «a leggere e scrivere» e a «rispettare i nemici e i
prigionieri».
Ha ancora gli occhi umidi, Benigno, quando racconta la
«trappola mortale» in cui cadde il mito rivoluzionario di intere
generazioni. E sfoga rabbia e delusione per una «macchinazione di cui
furono responsabili Fidel Castro e l'Unione Sovietica ». «Volevamo
esportare la rivoluzione. Fummo abbandonati nella giungla. Il Che andò
incontro alla morte, sapendo di essere stato tradito. Il 9 ottobre
1967, eravamo a pochi metri dalla scuola dove l'esercito boliviano lo
teneva prigioniero. Il nostro commando si era disperso. Altrimenti
avremmo tentato di liberarlo a costo di morire».
Nel 1956, Benigno
era un «campesigno » di 17 anni, quando i soldati del dittatore Batista
incendiarono la fazenda sulle montagne della Sierra Maestra, e uccisero
sua moglie Noemi, quindicenne, incinta di otto mesi. Entrò nel gruppo
di Cienfuegos, uno dei capi rivoluzionari. «Mi arruolai nella
rivoluzione per vendicare i miei cari. Ero il più bravo con la
mitragliatrice. Ho ucciso molti soldati. Non sapevo che cosa fosse il
socialismo. Il Che mi insegnò tutto. Non era facile conquistare la sua
fiducia. Ma era un uomo buono e onesto. Era l'unico, fra i leader, a
pagare di tasca propria l'auto di servizio», racconta al Corriere.
Oggi
Benigno ha quasi settant'anni. Dopo la rivoluzione, divenne capo della
polizia e responsabile della sicurezza, poi dirigente dei campi di
addestramento dei guerriglieri da inviare nel mondo a sostegno dei
movimenti rivoluzionari. È in quegli anni che intuisce che il
socialismo cubano non corrispondente agli ideali.
«Cienfuegos e
Guevara facevano ombra a Fidel. C'erano contrasti nel gruppo dirigente.
Poi Cienfuegos morì, in un misterioso incidente. Ero con Guevara in
Congo, quando Fidel rese pubblica una lettera in cui Guevara dichiarava
di rinunciare ad ogni incarico e alla nazionalità cubana. Il Che prese
a calci la radio e urlò: ecco dove porta il culto della personalità! Il
comandante aveva scritto la lettera dopo il discorso di Algeri in cui
aveva messo in guardia i Paesi africani dall'imperialismo sovietico.
Credo che quel discorso fu la sua condanna a morte. Quando tornammo
all'Avana, Fidel gli propose di andare a combattere in Sud America».
«Il
líder máximo — ricorda Benigno — partecipò ai preparativi. Veniva al
campo d'addestramento, ci garantiva l'appoggio del partito comunista
boliviano, la copertura degli agenti segreti, la formazione di nuove
colonne. Avremmo dovuto sbarcare nel nord del paese, in territorio
favorevole alla guerriglia. Imparammo anche il dialetto locale. Quando
Fidel era presente, il Che se ne stava in disparte. Capimmo poi il
perché».
Nell'ottobre 1967 scatta l'operazione. Il commando di
rivoluzionari cubani penetrò in una foresta infestata da insetti e
agenti segreti, isolata, dove si parlava un altro dialetto. «Scoprimmo
che il partito comunista boliviano non ci sosteneva, probabilmente su
istruzioni di Mosca. Il Che non era più lui. Sembrava disperato e
depresso. Ci lasciò liberi di continuare o rinunciare. Rimanemmo, ma
alla fine eravamo ridotti a diciassette, circondati da tremila soldati.
Ci dividemmo in tre gruppi e una mattina cominciò la battaglia finale.
Il Che fu fatto prigioniero. Lo ammazzarono il giorno dopo».
Tre
guerriglieri riuscirono a raggiungere il confine. Benigno, Urbano e
Pombo si salvarono con l'aiuto di Salvador Allende, allora presidente
del Senato. Nel viaggio di ritorno, passarono da Tahiti e dalla Grecia,
fino a Parigi. Furono ricevuti all'Eliseo da De Gaulle e infine accolti
a Cuba da Fidel come eroi. In patria, l'ultimo compagno del Che
continuò a far carriera. Urbano fu poi arrestato e internato. Pombo
divenne generale. «Io cominciai a vivere una doppia vita».
Chiediamo:
per quali ragioni Castro e i sovietici avrebbero avuto interesse alla
scomparsa del Che dalla scena politica? «I sovietici consideravano
Guevara una personalità pericolosa per le loro strategie
imperialistiche. Fidel si piegò alla ragion di Stato, visto che la
sopravvivenza di Cuba dipendeva dall'aiuto di Mosca. Ed eliminò un
compagno di lotta ingombrante. Il Che era il leader più amato dal
popolo. La nostra rivoluzione è durata pochi anni, oggi è una dittatura
come quella di Batista. I cubani hanno conquistato la cultura, non la
libertà, e sono ancora poveri. E la causa non è soltanto l'embargo
americano. È Fidel ad aver tradito la rivoluzione. Difficile prevedere
il futuro, ma non vorrei che il potere finisse agli esuli di Miami che
sono corrotti».
Benigno decide di fuggire. Approfitta di un permesso
dell'unione degli scrittori cubani. Si fa raggiungere dalla moglie a
Parigi. «Se fossi fuggito in America, dove vive un mio figlio, avrei
tradito il Che. Mi considero ancora un rivoluzionario. Il
rivoluzionario è chi riesce a indignarsi per le ingiustizie». La sua
vita diventerà un film, diverso da quello sul Che di Steven Soderbergh
prossimamente sugli schermi italiani. «Il film è bello, ma non
trasmette lo spirito del comandante e soprattutto non risponde alle
domande: perché fallì in Congo e in Bolivia? Chi lo ha tradito e
perché?».
Massimo Nava
(ha collaborato Alessandro Grandesso)
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