foto: Affreschi digitali
Fabrizio Tringali di “Alternativa”:
anche l’opinione pubblica l’ha capito: l’origine della crisi,
italiana ed europea, sta tutta nell’adozione della moneta unica,
l’euro, che «ha unito economie molto diverse tra di loro». Così
quelle più forti, Germania in primis, hanno finito per schiacciare
quelle più deboli. Verità palese, ancorché negata, anche se «le
criticità dell’unione monetaria europea erano assolutamente note
già trent’anni fa».
E son venti anni almeno che riempiono di balle e ci derubano
Ci sono nell'articolo che segue i fatti, ignoti ai più, che ci fanno capire come
siamo arrivati a questa fase terribile della nostra storia. E' da
leggere e da condividere nei blog e nei forum perchè si possa
rispondere al solito cretinario di chi ci vuole colpevoli!
Perchè non so voi, ma io sono arcistufa delle eterne logore cretinate che
cercano di ammannirci sui come ed i perchè, noi popolo bue saremmo
i responsabili dei nostri mali, e qualche povero cristo ci crede
pure! So bene che il web è pieno di marpioni, italianucci fasulli
che per i più disparati motivi si affannano ad appoggiare la vulgata
dei *** che stanno guadagnando una barca di soldi e benessere
dalla nostra rovina, quante persone per bene si stanno bevendo il
veleno che ci viene servito da mane a sera? Veleno fornitoci anche da
squallidi traditori del proprio Paese, veleno che , al di là della
contingenza economica in cui, in parte anche per colpa della nostra disattenzione a quel che bolliva in pentola, sia
chiaro, siamo stati messi, spargerà per generazioni, se non staremo
attent,i suoi effetti, resteremo marchiati per quello che non siamo:
Piigs, mentre i porci i porci veri stanno ben protetti e nascosti, e non
siamo noi , ma a noi si vuole che sia imposto quel marchio,
probabilmente per lasciare ancora a lungo liberi di fare e strafare
i furbastri .. chiamiamoli così.
Tringali: a chi conviene l’euro, la nostra
grande rovina
Debito
pubblico, Berlusconi e la casta, la corruzione, la mafia? Aggravanti,
ma non certo la causa della crisi, nonostante le chiacchiere di chi
ripete che non saremmo “capaci di stare al pari con gli altri paesi
dell’Europa migliori di noi”. Ormai, sostiene Fabrizio Tringali
di “Alternativa”, anche l’opinione pubblica l’ha capito:
l’origine della crisi, italiana ed europea, sta tutta nell’adozione
della moneta unica, l’euro, che «ha unito economie molto diverse
tra di loro». Così quelle più forti, Germania in primis, hanno
finito per schiacciare quelle più deboli. Verità palese, ancorché
negata, anche se «le criticità dell’unione monetaria europea
erano assolutamente note già trent’anni fa». Nessun mistero: se
la crisi finanziaria americana esplosa nel 2007-2008 era stata ben
poco prevista, quella dell’euro era invece chiaramente segnalata
sui radar degli economisti. In Italia, già durante il regno di
Giulio Andreotti.
Era il lontano 1978, racconta Tringali
in un video-intervento su “Byoblu” ripreso da “Megachip”,
quando il ministro Filippo Pandolfi mise in guardia in Parlamento:
l’Italia può entrare nello Sme, il nuovo sistema monetario europeo
(antenato dell’euro) solo a certe condizioni: un paese meno
competitivo come il nostro, gravato da un’inflazione
strutturalmente più alta rispetto a quella della Germania, una volta
stabilito un cambio fisso non avrebbe più potuto recuperare
competitività, all’occorrenza, svalutando la lira, e quindi
avrebbe dovuto inevitabilmente trasferire i necessari aggiustamenti
nell’economia interna. Come? Svalutando i salari, cioè i redditi
delle persone, frenando i consumi e quindi l’inflazione. «È
esattamente quello che sta accadendo adesso: si sapeva perfettamente
che lì si andava a parare», dice Tringali, stretto collaboratore di
Giulietto Chiesa e autore, con Marino Badiale, del volume “La
trappola dell’euro”, edito da Asterios.
Di cambi fissi tra le monete sovrane
nazionali, ricorda Tringali, si iniziò a discutere già alla fine
degli anni ‘70, archiviato il regime di Bretton Woods e quindi la
parità dei cambi rispetto al dollaro e la convertibilità del
dollaro con l’oro. In Europa, si cominciò a studiare un sistema
che irrigidisse i cambi: in un’economia in via di globalizzazione,
con libera circolazione di merci, capitali e servizi, chi detiene il
capitale desidera la rigidità dei cambi proprio per poter investire
là dove conviene di più, senza rischiare di rimetterci proprio a
causa della fluttuazione del cambio delle valute. Dopo il primo
esperimento del “Serpente monetario”, arrivò lo Sme. Il
monocolore Dc guidato da Andreotti con l’appoggio esterno del Pci
mise le mani avanti: servivano “paletti” per proteggere l’Italia
dal divieto di svalutare la lira per restituire competitività al
proprio export. Il 10 ottobre 1978, Pandolfi intervenne alla Camera:
chiese di far precedere l’adesione allo Sme (cambio fisso della
lira) con un regime di transizione meno rigido. Lo stesso Pandolfi
chiese anche l’introduzione di regole speciali per garantire
«un’equilibrata distribuzione degli oneri di aggiustamento tra
paesi in disavanzo esterno e paesi in avanzo».
In un’unione monetaria, spiega
Tringali, rappresenta una criticità il fatto che ci siano paesi
strutturalmente in surplus, come la Germania, accanto a paesi
strutturalmente in deficit: «Non ci sono da una parte i “virtuosi”
e dall’altra i “cattivi”, sono entrambe criticità del
sistema».
Non siamo lontani dall’idea di Keynes del dopoguerra,
rispetto a un sistema di cambi mondiali: cosa che non venne mai
adottata, tantomeno in Europa. Difatti, già il vertice di Bruxelles,
dicembre 1978, sancì la sconfitta della posizione italiana. Francia
e soprattutto Germania, osserva Tringali, non accettarono meccanismi
di aggiustamento automatico e condiviso degli squilibri tra le varie
economie europee, limitandosi ad accordare all’Italia una banda di
oscillazione più ampia rispetto a quella prevista dal sistema
stesso. Lo Sme non era rigido come l’euro, tollerava fluttuazioni
nei cambi. Ma proprio le rigidità introdotte dal Sistema Monetario
Europeo portarono l’Italia alla drammatica crisi del 1992, e quindi
all’uscita dallo Sme.
«Inizia così ad essere chiaro già
all’epoca che i paesi forti dell’Europa non vogliono
assolutamente meccanismi di solidarietà e di riequilibrio delle
economie – spiega Tringali – perché questo gli consente di
gestire meglio la loro condizione di forza e sostanzialmente di
costringere i paesi più deboli ad adeguarsi, cioè ad adeguare le
loro politiche economiche». Tant’è vero che la cosiddetta “virtù”
della Germania in realtà non è altro che la capacità della
Germania stessa di mantenere bassa l’inflazione. Come? Contenendo i
salari e facendo una politica non espansiva, che in qualche modo
deprime la domanda interna. «E questo è esattamente quello che poi
è avvenuto nel periodo successivo all’introduzione dell’euro».
Un mito da sfatare: «Tutti pensano che in Germania si sta molto
meglio che in Italia, che tutti guadagnano più degli italiani. Non è
affatto vero. La forza e la competitività della Germania è stata
costruita sul contenimento dei salari. E la Germania, non a caso, è
uno dei paesi europei meno sindacalizzati d’Europa».
Negli anni successivi all’euro, in
Germania sono state realizzate le famose riforme strutturali, quelle
che ora stanno cercando di imporre – sanguinosamente – anche in
Italia: «Sono quelle che hanno flessibilizzato ulteriormente il
lavoro, che hanno creato i mini-job: un terzo dei lavoratori tedeschi
oggi guadagna 400 euro al mese». Riforme strutturali: le stesse che
hanno diminuito le garanzie a sostegno dei lavoratori e dei contratti
nazionali di lavoro. Ma perché, dopo lo Sme, arrivare addirittura
all’euro, nonostante fosse ormai chiaro che mezza Europa – quella
più debole – ci avrebbe rimesso le penne? «Per i paesi forti è
chiaro: perché gli conveniva. Ma nei paesi deboli, alla fine, i ceti
dirigenti hanno capito che il vincolo esterno dato dall’appartenenza
all’euro, alla moneta unica, e poi anche all’Unione Europea, di
fatto consentiva loro di fare quello che altrimenti non sarebbero
riusciti a fare», sostiene Tringali. Ovvero: «L’introduzione
della flessibilità così come è stata fatta in Italia, fino ad
arrivare oggi alla messa in discussione dei contratti nazionali di
lavoro, non si sarebbero potuti realizzare senza che il vincolo
esterno del “ce lo chiede l’Europa” costringesse
sostanzialmente tutti a considerare quelle scelte come
“inevitabili”».
In realtà, quelle scelte antisociali
non sono mai state inevitabili. Azzerarle ora è possibile:
«La
strada è quella dell’abbandono della moneta unica e anche dei
vincoli europei». Sfortuna vuole che Bruxelles marci spedita in
direzione opposta: verso un governo unico europeo che decida al 100%
le politiche economiche degli Stati membri, come anticipato da
provvedimenti-capestro come il Fiscal Compact, che prescrive il
pareggio di bilancio e la fine sostanziale delle autonomie
finanziarie nazionali in materia di spesa pubblica.
«Il “più
Europa” non è altro che l’idea di spogliare gli Stati nazionali
della loro sovranità e demandare la sovranità nelle scelte di
politica economica e sociale». Finanziaria, contratti di lavoro,
politiche sociali, investimenti: tutto demandato “tecnicamente” a
Bruxelles, ma (attualmente) senza il minimo controllo democratico,
dato il super-potere della Commissione Europea, retta da tecnocrati
non-eletti, bensì designati formalmente dai paesi membri ma, in
sostanza, dalle élite finanziarie e dalle multinazionali.
Secondo l’ex cancelliere tedesco
Gerhard Schroeder, Berlino accetterebbe l’elasticità dei
meccanismi di compensazione se Bruxelles ottenesse la sovranità
definitiva sull’Europa. Il motivo è intuitivo: comanderebbe anche
ufficialmente il più forte, cioè la Germania, che a quel punto
potrebbe imporre anche agli altri membri dell’Eurozona la sue
politiche di deflazione. Problema: manovre così poderose
richiederebbero come minimo un processo autenticamente condiviso, in
modo democratico. Mission impossible: «Non esiste nessuna
possibilità di democratizzare l’Unione Europea – dice Tringali –
e non esiste nessuna possibilità di costruire un governo
democratico europeo». Non c’è esiste neppure un vero “popolo
europeo”, di elettori autorizzati a scegliere il proprio governo
federale: cosa che oggi non avviene, visto che i cittadini eleggono
solo gli europarlamentari, mentre le poltrone che contano – quelle
della Commissione – sono diretto appannaggio degli Stati e dei
gruppi di potere ad essi collegati.
E poi non è solo questione di
procedure: dalla Rivoluzione Francese in poi, continua Tringali,
l’idea di democrazia rappresentativa si fonda sul fatto che un
qualunque governo, per essere qualificato come democratico, non deve
solo rispondere a un Parlamento, ma anche all’opinione pubblica e
alle forze sociali, sindacati e associazioni, liberamente costituite
dai cittadini. Ed è esattamente quello che avviene in tutti gli
Stati nazionali». Non a livello europeo, però, «perché i
cittadini e i popoli europei sono divisi tra di loro». Per poter
creare un’opinione pubblica e una vera comunità sociale europea
servono almeno tre condizioni:
- una lingua comune,
- una significativa
mescolanza delle popolazioni
– l’incontro le la lenta fusione di
tradizioni diversissime
– e un sistema mediatico che assicuri
l’accesso alla stessa informazione, fino a formare un’opinione
pubblica europea
. Senza queste pre-condizioni, l’ipotetica
formazione di un vero governo legittimo europeo (non all’orizzonte,
peraltro) non avrebbe nulla di realmente democratico.
«Al sogno di una grande Europa
democratica e unita, pacifica e solidale – afferma Tringali – si
contrappone la dura realtà, il terribile incubo della maggiore
unione politica all’interno dell’Unione Europea, che non può che
trasformarsi, per questi motivi, in un super-Stato con poteri
semi-assoluti, perché a questo punto potrebbero decidere quasi
tutto, e rispetto al quale non vi è possibilità di un confronto con
le forze sociali che nascono tra i cittadini e nella società». E
perché mai lo si vuole realizzare, l’euro-mostro? Risposta facile:
non per tutti sarebbe un incubo.
Se la stragrande maggioranza dei
cittadini perderebbe diritti duramente conquistati, i profitti del
grande capitale industriale volerebbero alle stelle. Grazie anche al
regime dei cambi fissi, figlio della globalizzazione: monete
bloccate, volute proprio da chi intende proteggere il proprio
business dalle fluttuazioni valutarie. Risultato: le economie
nazionali “ingabbiate” dall’euro scatenano «una guerra al
ribasso delle condizioni di lavoro», per ottenere «esattamente
quello che serve alle classi dominanti per aumentare i margini di
profitto».
Parla da solo il caso della Fiat di
Marchionne: «Oggi devi accettare condizioni di lavoro impensabili
fino a poco tempo fa, con la minaccia che altrimenti la produzione
viene spostata in Serbia». Poi ovviamente a Belgrado avviene la
stessa cosa: lavoro quasi schiavistico, sotto la minaccia di
trasferire le fabbriche in Cina o chissà dove. E’ la
globalizzazione: ci sarà sempre un paese dove il lavoro costa meno,
e dove quindi il profitto cresce. A condizione, ovviamente, che i
capitali possano circolare liberamente, e senza il rischio della
fluttuazione dei cambi. Questo vale per le grandi industrie, dice
Tringali, mentre la piccola e media impresa – cuore dell’economia
italiana – sta cominciando a capire, schierandosi contro l’euro.
Se Montezemolo e Marchionne sono tifosi della Bce e della moneta
unica, lo stesso presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi, prova
a smarcarsi dall’euro per salvaguardare i medio-piccoli, che
arrancano e subiscono l’aggressione dell’imprenditoria tedesca,
impegnata ad acquistare a prezzo di saldo le aziende italiane.
Un disastro, mascherato da un muro
ideologico invalicabile: «Bisogna ammettere che sono stati bravi,
chiunque di noi provi a ragionare sul rapporto costi-benefici
dell’adesione all’euro e all’Unione Europea va a sbattere
contro una barriera ideologica». Possibile uscire dall’euro? C’è
chi teme una iper-svalutazione, il dilagare dell’inflazione: «Non
potremmo più comprare le materie prime – protestano alcuni – e
diventeremmo assolutamente incapaci di sopravvivere nel mondo con la
nostra “liretta”». Errore: non essendovi correlazione diretta
tra svalutazione e inflazione, secondo l’economista Alberto Bagnai
il deprezzamento della lira post-euro sarebbe commisurato con la
perdita di competitività che si è avuta rispetto alla differenza
dei tassi di inflazione tra la Germania e l’Italia nel periodo
dell’euro. In sintesi: una svalutazione intorno al 20%. Quando
l’Italia uscì dallo Sme, subì una svalutazione iniziale del 7% ma
l’inflazione, anziché esplodere, diminuì. E una svalutazione
relativamente contenuta, aggiunge Tringali, non ci impedirà
assolutamente di acquistare energia e materie prime vitali.
Altra demonizzazione ideologica
fabbricata dall’élite egemone, lo spettro dell’inflazione: in
eccesso può essere distruttiva, ma mai quanto l’aumento dei prezzi
se i salari restano bloccati. Oggi l’inflazione italiana oscilla
fra il 3 e il 4,5%, ma gli stipendi non crescono o addirittura
diminuiscono: perdiamo potere d’acquisto e, grazie all’euro,
siamo sempre più poveri. «Se hai un’inflazione del 7-8% ma il tuo
salario aumenta di quel tanto o anche un po’ di più, tu aumenti il
tuo potere di acquisto e sei più ricco». L’inflazione, poi, è
una boccata d’ossigeno in caso di debiti e mutui: se il salario
aumenta in base all’inflazione, le rate restano bloccate rispetto
alla cifra iniziale pattuita. Senza contare il maxi-debito dello
Stato. Domanda retorica: «Per un paese che ha un alto debito
pubblico, un po’ di inflazione sarebbe un bene o un male?».
Peccato che in Europa nessuno ragioni così: si pretende che l’Unione
Europea sia intangibile. Una sorta di tabù, che incombe sul destino
di tutti. Ad aprire gli occhi, ora, provvede l’emergenza della
crisi: il problema si chiama euro, creatura di una costruzione
giuridica – l’Unione Europea – che non ha niente a che fare con
la democrazia.
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