Una stretta quasi impercettibile, ed una pena sottile mi
è venuta incontro insieme ai veli strappati delle nebbie che
salivano dal fosso vicino casa, si un fosso più che un canale, un
fosso che da bambina guardavo sognando di fate , di gnomi, di eroi. Dalla nebbia mi arrivava il ricordo indistinto di racconti
che ,se da bambina mi rendevano felice, ora mi procuravano fastidio in qualche modo.
Un gioco, facevamo un gioco con l'amico
"grande", che spesso arrivava dai posti più impensati,
ricolmo di regali, per lo più libri illustrati . Invecchio e
ricordo, anche senza l'aiuto della nebbia.
Lo sguardo vivace , i
capelli lucidi neri e lisci, gli occhi dolci e mobilissimi, io lo consideravo un compagno, un
fratello, e la tata mi sgridava severa. "Ti prendi troppe
confidenze, uno scrittore, un giornalista importante e ci giochi a
tu per tu, come se fosse un compagnuccio " Non le badavo.
Era importante per me che venisse di
tanto in tanto, non ricordo il nome, si curarono di farmene
dimenticare persino l'esitenza, cose da grandi, chi sa cosa ha rotto l'amicizia, la politica forse.
Io ripensandoci ,
credo che la mia passione fosse dovuta alla mia enorme solitudine e
con lui non ero mai sola: mi parlava, raccontava, favoleggiava e mi
spingeva a leggere fino dall'età di tre anni, mi spingeva a scrivere
a correre per i viali del giardino, a giocare con la terra : "
Impastala" diceva, "cerca diversi tipi di terra, vedi che
laggiù c'è quella cretosa? Usala" Un amico stupendo e per un
insieme di motivi che non so , me ne dovetti staccare, 5 anni sono
pochi per superare un distacco senza nemmeno spiegazioni. E anche 13
anni sono pochi per capire cosa davvero ti succede intorno, per
capire il senso delle mezze frasi, dei sorrisi falsamente
comprensivi di certi parenti, ero sbigottita, mi dicevo che alcuni mi
trattavano come se fossi una povera crista, una orfanella, ecco si,
mi trattavano da bambina orfanella dell'800, o comunque così pareva
a me.
Pochi anni prima di esser mandata in sardegna per un lungo periodo, via da Roma, persi la tata, non poteva più restare con noi, la sua
famiglia aveva bisogno di lei, era preoccupata nell'andare via e mi
fece una raccomandazione breve e precisa: " non chiedere mai di
lui, basta, non verrà più, ed è addolorato per questo, ma ha tanti
problemi, se gli vuoi bene, non chiedere più di lui"
Sa Dio se
gli volevo bene, tata mi raccontava che a volte da piccolissima sbagliavo e lo chiamavo papa', forse perchè il mio
lavorava sempre e poi da piccolissima ero sicura davvero che lui fosse il mio
papa', si vede che il mio era meno divertente.
Insomma tacqui con tanto impegno.. che diventò in breve il ricordo
di un distacco doloroso. Il ricordo dell'incitamento ad essere
coraggiosa, il ricordo delle letture dei suoi libri e articoli, o comunque delle letture preferite del mio amico, fatta
di nascosto nel freddo salone, accucciata ai piedi del pianoforte, ma
non capivo molto, ed ora pian piano rileggo, quando posso, come ho
fatto ieri tornando dalla passeggiata verso il canale delle fate.
Più o meno, mi pare di ricordare, una
volta che piangevo per aver perso alla lotta con una bambina che mi
aveva fatto un qualche torto a scuola, mi disse serio: urassa ( il
nome veniva da un gioco), "urassa, se tu non ti senti vinta, non
sei vinta, nemmeno se stai col sedere per terra, se sai perdere, poi
vincerai" non capii molto se non che la partita non era chiusa e
l'indomani sferrai un bel cazzottone sulla faccia della rivale , la
mandai a tappeto. Quando sei più grande, leggi qui, continuò quel giorno, e mi porse uno dei
libri che aveva portato , ci mise un bel segnalibro: un settembrino..
" non toglierlo!"
Ci pensarono i miei, tolsero di mezzo
il libro e lo ritrovai con la macchia nelle prime pagine ed il fiore
secco, dopo anni.
La peste di Napoli
- l'onore di essere liberato per
primo, era toccato in sorte, fra tutti i popoli d'europa, al popolo
napoletano: e per festeggiare un così meritato premio, i miei
poveri napoletani, dopo tre anni di fame, di epidemie, di feroci
bombardamenti, avevano accettato di buona grazia, per carità di
patria, l'agognata ed invidiata gloria di recitare la parte di un
popolo vinto, di cantare, batter le mani, saltare di gioia fra le
rovine delle loro case, sventolare bandiere straniere, fino al
giorno innanzi nemiche, e gettare dalle finestre fiori sui
vincitori.
- Ma, non ostante l'universale e
sincero entusiasmo, non v'era un solo napoletano, in tutta napoli,
che si sentisse un vinto. Non saprei dire come questo strano
sentimento fosse nato nell'animo del popolo. Era fuori di dubbio
l'Italia, e percciò anche napoli, aveva perduto la guerra. E' certo
assai più difficile perdere una guerra che vincerla. A vincere una
guerra tutti son buoni, non tutti sono capaci di perderla. Ma non
basta perdere una guerra per avere il diritto di sentirsi un popolo
vinto. Nella loro antica saggezza, nutrita di una dolorosa
esperienza più volte secolare, e nella loro sincera modestia, i
miei poveri napoletani non si arrogavano il diritto di sentirsi un
popolo vinto. Era questa senza dubbio, una grave mancanza di tatto.
Ma potevano gli Alleati pretendere di liberare i popoli e di
obbligarli al tempo stesso a sentirsi vinti? O liberi o vinti.
Sarebbe ingiusto fare colpa al popolo napoletano se non si sentiva
nè libero nè vinto..-
Di tutto questo a me bambina restava
solo la testardaggina del "fare finta di niente", come se
non avessi notato che il mio amico non veniva più, ed insieme un
senso di dispetto verso i "grandi", gente incomprensibile
e lontana, per cui decisi: dovevo fare come mi aveva consigliato
il mio amico, leggere, crescere e mai sentirmi vinta, sempre pronta
ad una nuova lotta, i miei andavano accettati, e non erano poi malaccio, tolta quella fisima.
Magra consolazione, ma avevo solo
quella , a quella mi attaccai con tutte le forze, ed andai avanti,
come tutti.
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