I mercati di quartiere oggigiorno conservano poco dell'antica allegria. Credo che questo sia dovuto anche al fatto che la
spontaneità l'è morta.
Come molti, amo, quando vien da sè, dialogare con le persone che incontro durante le mie rare escursioni fuori dal mio eremo e da tempo ne ho tratto la convinzione che gli italiani sono sempre più spesso a disagio;
parlando con la così detta gente comune ti rendi conto che questa si sente oppressa, limitata come le fosse stata
imposta una camicia di forza.
Ne sono immuni forse solo quelli che
vivono al di fuori del sistema perchè disposti a delinquere, che poi vuol dire anche affrancarsi da un qualcosa che si sente estraneo. E ne sono immuni evidentemente anche quelli che vivono al di sopra del sistema del quale sono in vario
modo garanti o guardiani.
Ma esistono anche gli altri, la famosa maggioranza silenziosa, ebbene quella mi appare
profondamente infelice, morta dentro.
Un dato di fatto che finirà,
credo io, per pesare negativamente su tutta la costruzione di
cartacce e di esterofile follie simil economiche, a mio avviso puro banditismo, che stanno dissennatamente coccolando in quel di Italy. Certo è opinione personalissima, chi sa se e quanto realistica. Io comunque questo scontento sottile lo chiamo il "fattore
umano", e mi auguro che prima o poi finisca per esplodere in mano ai dissennati "pupari" .
Torno ai vecchi mercati di quartiere, ai miei ricordi: nel dopo guerra si era tutti più o meno poveri o
poverissimi, comunque in difficoltà, eppure andare al mercatino rionale con poche lire da
spaccare in mille per fare mangiare tutta una famiglia, era per i più una
festa, ed un attimo di svago.
Vi si respirava soprattutto la gioia
di poter finalmente avere aspettative di un domani. Allora esser poveri lo si accettava
per lo più allegramente, si era felici d'esser ancora vivi, si coltivava la
speranza di un prossimo futuro colmo di promesse .
Arrivavano quando era ancora buio, li chiamavamo "piazzaroli" ed erano
pieni di energia e voglia di fare, urlavano richiami divertenti,
specie le fruttivendole allegre ed un po' sguaiate; era la campagna
con i suoi profumi ed i suoi richiami che ti arrivava in città,
spontanea e festosa. Anche se i bancarellari si erano messi in
viaggio dall'agro romano a notte, prima dell'alba, rinnovavano ogni giorno all'arrivo una festa, si chiamavano l'un l'altro, si incitavano, chi sa, forse anche per farsi coraggio, non vendere o vender poco poteva costituire un piccolo dramma.
Nel mio quartiere, Montesacro, alle primissime luci, preceduti da abbaiare di cani, arrivavano rumorosi,
passando per la strada che costeggiava i villini della Montesacro
alta, fra i quali era il nostro, per scendere verso la piazza.
Carretti rumorosi, campanacci,
alcuni infatti erano trascinati da buoi ossuti, altri da cavalli pieni di
mosche, magri e spellacchiati, poveretti, sembravano sempre li' li'
per rendere l'anima; ricordo che qualche verduraio arrivava
addirittura spingendo a piedi e di corsa l'agile carrettino, una
strana processione che potevo spiare dalle finestre della mia
camera, sempre uguale eppure sempre nuova.
Nonostante questa gran fatica notturna, apprestati i
banchetti con tavolacci raccogliticci, scritti i prezzi col gesso su
cartelli improvvisati per lo più piantando in una canna spaccata,
mezze buste di carta paglia ben piegata e ripiegata, si dedicavano
con passione instancabile a richiamare l'attenzione delle clienti
che si mostravano distratte o critiche, perchè dopo , al secondo
giro della piazza che percorrevano tutta con attenzione minuziosa,
avrebbero tirato a lungo sul prezzo. I venditori non risparmiavano
richiami urlati e strampalati per attirare i compratori, ognuno
cercava di sovrastare i vicini, gigioneggiando, complimentando le
massaie, o addirittura mimando la angoscia di dover svendere si bella
e buona merce.
Erano mercati belli , profumati e
colorati perchè bella e pittoresca era la mercanzia esposta,
profumata e varia, come natura l'aveva creata, succosa e vera, non una finzione , la merce era spesso adornata di foglie o addirittua fiori.Te
ne beavi gli occhi e l'olfatto mentre cercavi di capire il senso dei richiami striduli
delle donne o nasali degli uomini.
Per esempio: "moscia
all'albero " gridava sempre monotona una matrona col banchetto
d'angolo, la ricordo ancora, col suo scialletto bucherellato, ed i
capelli di naurale rosso fiammante, era bella a suo modo, e con questa frase
sibillina intendeva dire che la sua frutta non era stata maturata
nella paglia in grotta, ma al sole, sull'albero. La differenza da quello che , scipito e plasticoso ingurgitiamo oggi , è in gran parte in questo particolare purtroppo connaturato alle nuove esigenze del mercato, ed aggirarle si può, ma è fatica. "Tiè,"
urlava di rimando tenorile un omaccione mettendo quasi sotto al naso
alle passanti un grappolo d'uva degna d'un quadro del Caravaggio ,
"Tiè, guarda, viè diretta dalla vigna de Bacco", ed era
uva da tavola.
Non mancava quasi mai, vicino alla
fontanella, un bellissimo Nasone, un banchettino con dolci appiccicosi di miele e
zucchero, per lo più caramelline d'orzo freddate sul marmo,
carrube, bastoni coloratissimi di zucchero, confettini minuscoli ed
invitanti. Purtroppo era proibito da mia madre che mi si
comperassero, "non sono igenici" aveva decretato, in
effetti ci passeggiavano sopra le mosche nonostante i tulle messi credo per bellezza e pro forma, visto che quelle penetravano felici sotto i veli bianchi; io ci lasciavo gli
occhi, zucchero e profumo o poco più avvolti di tulle e ravvivati da mosche impertinenti, eppure attiravano come magia tutti i ragazzini del quartiere. Qualche volta sono riuscita convincere o la nonna o la Maria, fra mille raccomandazioni di non svelare il segreto a nessuno, a farmi comprare qualche minuzia di dolcetto, e quell'appiccicume quasi rubato, forse era felicità.
Ripensandoci eravamo tutti piuttosto
semplici e genuini. Noi si sorrideva, ma senza malizia, con la Maria
o con mamma quando notavamo i trucchi che i "fruttaroli
"usavano nel pesare la merce, la rapidità con cui fingevano di
mostrarti la tacca sul peso, e si erano pappati almeno 50 gr. In
realtà il loro era un duro lavoro portato avanti senza risparmio di
fatica, sia mamma che Maria me lo avevano spiegato quando avevo
chiesto perchè fingevano di non aver notato nulla, in fin dei
conti spiegava mia madre, erano padri di famiglia che se arrotondavano di poche lire in più
sul prezzo dichiarato, era gente che aveva perso tutto, alcuni in origine non
erano nemmeno contadini, e si arrangiavano, come il marito di Maria,
che a sostenere quelle fatiche finì per ammalarsi seriamente.
Vivemmo anche noi con apprensione quella malattia, e cercammo, nella limitatezza dei mezzi del dopo guerra, di esser utili alla famigliola nel lungo periodo di inattività del padre, questo era lo spirito, non carità, e nemmeno solidarietà, forse era fraternità, mamma aveva le sue precise convinzioni in proposito, nate da una educazione e frequentazione capii presto, a contatto del pensiero francescano, che poi collimava , in qualche strano modo col pensiero e la educazione di mio padre. Era naturale occuparsi di chi, vicino a noi si trovava in difficoltà, domani sarebbe potuto accadere a noi.
Il dopo guerra in Italia, quello ho conosciuto de visu sia pure bambina, è stato anche questo modo di sentire spontaneo e assai più diffuso di quanto si possa credere e di quanto si sia raccontato. Il male, gli strascichi della guerra civile, le pitoccherie delle burokrazie spesso infide e già corrotte almeno in parte, quelle robe trovano più lettori. Forse però si corrompe anche il ricordo rinvangando sempre e solo il male, credo, si finisca,anche in questo modo, per incidere negativamente sul nostro sgarrupato tessuto sociale
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