CATASTROFI, TRA ANSIA E BUSINESS

Scritto da Marista Urru   
venerd́ 11 settembre 2009


Dilaga una visione apocalittica che vede la "fine del mondo" in qualunque evenienza negativa. Esempio, la "pandemia

suina". Delirio di onnipotenza, sgomento post-scientista, opportunismo degli affaristi della prevenzione?

‘Il Domenicale, settimanale di cultura', pagina 5, anno 8, n° 36, Sabato 5 Settembre 2009.

 

Il 2009 si è presentato fin dall'inizio all'insegna delle peggiori notizie, dalla crisi economica al riscaldamento globale. Statistiche e teorie profilano la prossima fine della razza umana, se non dell'intero pianeta.

Un escamotage per rendere le notizie più appetibili, un incremento di pessimismo spicciolo o polemiche ideologiche? Un po' di tutto.

Specialisti televisivi del genere, come Mario Tozzi e Roberto Giacobbo, hanno furbamente riferito i loro ultimi libri al famigerato 2012, indicato da antiche civiltà come data della fine del mondo. Nella tipologia più politica, invece, rientra la querelle nostrana che ha visto alcuni ministri puntare il dito contro l'Istat, rea di snocciolare dati univocamente negativi. La diatriba vale però anche a livello internazionale, poiché i trend sociali, economici e finanziari sembrano variare - a seconda dell'indice adottato - dalle più fosche previsioni di progressiva e inarrestabile recessione a un'incoraggiante, ancorché timida ripresa.

Il timore circa l'innalzamento delle temperature terrestri, che da anni allarma media e opinione pubblica, è stato rinvigorito dalle previsioni più recenti: dal 2040 il ghiaccio artico potrebbe iniziare a mancare del tutto per alcuni periodi dell'anno. Si alza però anche la voce degli scienziati scettici secondo i quali questi «meri esercizi teorici » sono viziati da un margine d'incertezza troppo ampio: tra questi, il sociologo britannico Anthony Giddens, che nel suo ultimo libro The Politics of Climate Change contesta il "principio di precauzione" in base al quale «nessuna nazione» ottiene la promozione «in termini di riduzione dei gas serra».

A detta di Teodoro Georgiadis, dell'Istituto di Biometeorologia del Consiglio Nazionale delle Ricerche, l'errore «nasce dal trattare i fenomeni come se fossero continui se non addirittura lineari. E così "smussiamo", per così dire, i dati». Vincenzo Levizzani, dell'Istituto di Scienze dell'Atmosfera e del Clima del Cnr, ha condotto assieme ad Arnold Gruber dell'Università del Maryland uno studio su 25 anni di foto satellitari, contestando recisamente il nesso tra aumento delle precipitazioni e il verificarsi di uragani come Katrina o Dolly. Anche qui, «il range di errore è troppo grande».

Proprio sull'equivoca interpretazione di paradigmi astrattamente calcolati al computer quasi fossero profezie imminenti si basa anche l'allarme per il virus A/H1N1, già noto come "febbre suina". La prima pandemia del XXI secolo? In effetti la nuova influenza è in grado di propagarsi velocemente e ampiamente, ma la sua relativamente bassa mortalità la differenzia sostanzialmente dai predecessori che decimarono la popolazione europea, quali peste o colera. L'A/H1N1 ha mietuto poche decine di vittime tra persone affette da altre patologie, come qualunque sindrome influenzale. I drammatici dati pronosticati da Andy Burnham, ministro della Sanità britannico, o le stime che paventano 100mila infetti al giorno a Londra o 20 milioni in Inghilterra, vanno dunque letti con cautela, ma bastano per sostenere la "caccia" al vaccino, da catturare a qualsiasi costo. Gli economisti di Oxford Economics stimano che sei mesi di virus potrebbero costare circa 60 miliardi di sterline, allungando di due anni la durata della crisi finanziaria britannica e bruciando fino al 5% del Pil nazionale. Anche in Italia le preoccupazioni per il virus poggiano su dati da capogiro: il viceministro Ferruccio Fazio ha spiegato che l'obiettivo è vaccinare fino al 40% della popolazione, in previsione che si ammalino circa 4 milioni di persone. Stephen Lebdman, ricercatore del Centre for Research on Globalization, Globalization, lancia un allarme dentro l'allarme: il vaccino sperimentale per l'H1N1 sarebbe tossico e dannoso per il sistema immunitario a causa dell'uso «di squalene, un idrocarburo presente nell'olio di fegato degli squali».

 

Accrescere la gravità dei pericoli è sicuramente un'ottima campagna promozionale per il "business della prevenzione", il quale oramai permea tutti gli ambiti dell'esistenza: dall'informatica (il millennium bug previsto al cambio di secolo richiese ingenti investimenti, eppure non fu registrato nessun evento significativo), passando per l'ambiente (il paventato anthropological global warming sposta finanziamenti colossali, a partire dalle misure indicate da Kyoto, fino a quelle stabilite al G8 dell'Aquila). L'allarmismo per un'influenza che finora ha ucciso poco più di 700 persone in tutto il mondo su una popolazione di quasi 7 miliardi di individui, frutta miliardi ai giganti dell'industria farmaceutica. Oltre ai vaccini (milioni di dosi già pagate prima che siano prodotte e testate), infatti, ci sono i farmaci per curare l'influenza. Anzitutto il Tamiflu della Roche, che varrà 1,8 miliardi di dollari nei Paesi ricchi e 1,2 miliardi di dollari nei Paesi in via di sviluppo, e poi il Relenza della britannica Glazo-SmithKline, per un valore di 3 miliardi di dollari. L'allarmismo sfrenato è insomma anche un'ottima strategia di marketing. Un esempio ancora? La microcriminalità. Le aziende della sicurezza elettronica residenziale (serrature, telecamere a circuito chiuso), secondo la Camera di Commercio di Milano, registrano crescite rilevanti, fino al +22,2% registrato in Valle d'Aosta.

 

L'atteggiamento di esasperata paura nei confronti di eventi negativi ma naturali o ineluttabili deriva d'altro canto dalla pretesa di ottenere un mondo reale e ideale insieme, magari con l'aiuto del progresso e della tecnologia. Ogni catastrofe ambientale è "annunciata". La conclusione? Che nella pretesa di sistemare tutto con la cortissima coperta delle risorse pubbliche si finisce per lasciare senza protezione anche problemi dove bisognerebbe intervenire con una celerità che lo Stato mostra raramente. A Cancia, in Cadore, i lavori sono costati 12 milioni di euro e al momento della frana del luglio scorso erano in corso da quasi 12 anni, a causa di risse progettuali tra Regione Veneto, Università di Trento e ambientalisti preoccupati della sorte dei pipistrelli della zona.

 

Ci vorrebbe più moderazione anche nel commuoversi davanti alle tragedie, quando si hanno incarichi pubblici o di responsabilità. Esemplificativo il commento del Presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia per una delle più emozionanti verificatesi quest'estate, l'incidente ferroviario di Viareggio: «Non è possibile che succedano cose di questo tipo in un Paese civile». Una frase rituale in certi contesti, che però tradisce l'idea di poter davvero raggiungere un obbiettivo evidentemente asintotico, eliminando le percentuali purtroppo fisiologiche di incidenti. È questo anche il caso delle "morti bianche". Il Rapporto Inail 2008 smentisce l'idea diffusa in occasione di ogni incidente grave, che i decessi sul posto di lavoro siano aumentati. È esattamente l'opposto: nel 2008 sono diminuiti del 7,2%, confermando una virtuosa tendenza che li ha ridotti ad un quarto rispetto ai primi anni Sessanta. «Un incoraggiante record storico», dice il rapporto che pone il nostro Paese tra i meno afflitti da questo triste problema: Eurostat registra «2.812 infortuni per 100mila occupati», un indice inferiore alla media UE (tra 3.013 e 3.469). Propagandare la perfezione come modello civile e politico equivale a una delirante presunzione di onnipotenza e, per reazione, sintomi patologici opposti quali l'apocalittico scetticismo verso ogni forma di avanzamento scientifico, sociale e culturale. Il collaudo di Lhc (Large Hadron Collider, l'acceleratore di particelle del Cern di Ginevra) non per nulla è stato preceduto da assurdi timori per la generazione di un "buco nero" che avrebbe inghiottito la Terra.

 

Francesca Lippi

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